roberto ilacqua
  Violino
 
Dopo aver scritto di getto così tanti pensieri strani sui due strumenti era ora che arrivasse a maturazione una delle mie idee fisse: Il secondo tempo dei concerti. Il secondo tempo è, a mio modesto avviso, il più difficile da suonare e ascoltare. A rafforzare questa mia idea  anche il fatto che il secondo tempo non ha mai subito una evoluzione nella forma. Mi spiego: Il primo tempo si è evoluto nella forma sonata; il terzo nei vari temi con variazioni, rondò, con varie "repechage" di temi popolari (da Mozart in poi); ma il secondo tempo si è cristallizzato nella forma "adagio", "lento",ecc...e vi è stata una ciclicità che ha portato alla riesumazione di forme arcaiche (dalla metà dell'ottocento tedesco in poi).
Nella tesi vi sono presentati poi alcuni pezzi che ho suonato nell'esame di laurea che sono: il concerto di A.Zani che ho registrato in prima assoluta mondiale con la "Camerata Ducale di Parma" per presentare il concerto nella sua forma già tripartita che è arrivata fino a noi e poi, per mettere l'accento sulla difficoltà del secondo tempo nell'evolversi del tempo ho suonato il secondo tempo di Mozart (re maggiore), Brahms (re) e Ghezzi. Di questa esecuzione non resta traccia (logicamente trattandosi di un esame) se non nella mia votazione finale.




CONCERTO

 

 

Significato ed etimologia del termine

 

 
Il termine concerto viene usato in tre diversi significati: Il primo è
quello di pubbliche esecuzioni di un solista (recital), o di un
complesso cameristico o sinfonico, e allora sta per
intrattenimento musicale; Il secondo quello di un complesso
musicale, vocale o strumentale, come nel rinascimento il
“Concerto di dame” della corte di Ferrara o il “Concerto di viole”
di G. B. Doni. L’ultima accezione del termine è quello che ci si
accinge ad esaminare in questo lavoro.

Il significato più importante del termine concerto è quello di designare un particolare tipo di composizione strumentale contemplando così una delle più importanti ed affascinanti forme musicali della storia. A causa dell’imprecisione del lessico musicale fino all’epoca pre-classica (1600-1700), si poteva dare il nome di concerto ad opere di genere, spirito e tecnica assai differenti: composizioni sacre o profane, vocali, strumentali o miste. Per questo non è di grande interesse sapere se concerto derivi dal latino “concertare” (cioè lottare uno contro l’altro), oppure dal suo omonimo “conserere” (unire i propri sforzi, cooperare). Senza dilungarci troppo in questa controversia linguistica, si noterà che essa può interessare maggiormente gli storici del concerto inteso nel suo significato letterario e non è questo l’interesse del presente lavoro, quanto invece il significato musicale che essa viene assumendo nei secoli. Il concerto strumentale, nel suo vario rinnovarsi infatti, rispecchierà sia il concetto rinascimentale di “unire” e di “legare insieme”, sia quello classico di contesa e di lotta, fondendo nella sua struttura contrastanti timbri, opposte masse sonore e conflitti di idee tematiche, in serrata intesa dialettica e in unità di stile.

Sotto il significato di un comune accordo di strumenti o di canti, la parola Concerto viene usata per la prima volta nel 1519, quando, accennando ad un intermedio eseguito in Roma, si parla di “un concerto di voci in musica”.

In questa esemplificazione è evidente che la parola concerto è usata nel senso di intesa e accordo; cioè di far musica in compagnia, ma nel corso del secolo sempre più vivi si fanno il desiderio e l’uso di accostare, nella pratica, le voci agli strumenti e da questa esperienza matura la coscienza di un nuovo stile che fu chiamato “concertante”.

Sul finire del secolo e agli inizi del ‘600, la parola concerto ha assunto nella prassi musicale due distinti orientamenti a seconda nella composizione sopravviva il principio di “legare insieme”, oppure si sviluppi in essa il concetto del contrasto e della contesa.

L’importante è distinguere, tra le numerose raccolte di concerti ecclesiastici e di concerti profani pubblicati tra il 1590 e la metà del secolo seguente, quelli che sono semplicemente musica d’assieme da quella che, basandosi sull’opposizione di due masse corali o strumentali, preannunciano il concerto grosso.

Si noti che gli esempi più caratteristici dello stile concertante si trovano in opere il cui titolo non contiene la parola concerto, in modo particolare in quello della scuola veneziana di A. Willaert (1490 – 1562). Questo musicista fu sicuramente ispirato da una caratteristica della basilica di S. Marco, che fin dagli ultimi anni del XV sec. possedeva due organi che si fronteggiavano e che potevano accompagnare due distinti gruppi di cantori o strumentisti.

Quindi la vera culla della musica concertante, dello stile moderno basato sul contrasto o quanto meno sull’alternanza, fu sicuramente Venezia. Fino dall’epoca in cui Willaert scriveva per doppio coro, i suoi colleghi organisti in S. Marco, Padovano e Parabosco, componevano per i loro strumenti in uno stile dialogante. Questa preparazione al concerto inteso nel suo significato odierno del termine, durata circa un cinquantennio, sfocia nel 1587 nei concerti  di Andrea (Ve 1510-ca 1586) e Giovanni Gabrieli (Ve1557-ca 1612).

 

Il ‘600: il violino e la sonata

 

Nei primi decenni del ‘600 lo stile concertante ha invaso ogni sede dove si fa musica: la chiesa, la camera, il teatro. Il chiaroscuro sonoro si fa sempre più marcato col progredire della tecnica degli strumenti. Monteverdi (Cremona 1567 – Venezia 1643) per ottenere una forte tensione drammatica, tende a disporre un gruppo vocale quasi in funzione di “concertino” in contrapposizione al “grosso” del coro: l’esempio più evidente lo si trova nella scena finale del secondo atto dell’Orfeo (1607).

In questo secolo comincerà a crescere l’interesse per un nuovo strumento: il violino, che aprirà un nuovo capitolo della storia della musica, nel quale il concerto dovrà costituire il punto culminante.

Il culto del violino portò alla crescente scoperta di un nuovo lirismo, con possibilità superiori a quelle della voce umana, che, attraverso la forma della sonata, realizzava un proprio linguaggio e un proprio stile. Con l’apparire della sonata a tre o a solo si prepara la strada alla forma del concerto barocco, si esce cioè, dal vago in cui si erano destreggiate le composizioni fin qui denominate concerto e che altro non significavano che brani da suonare insieme. La struttura compositiva si sgancia dalla tradizionale forma della canzone e quindi dalla predominante tecnica del contrappunto imitativo, per adottare anche la nuova tecnica di suggestive progressioni di accordi o di elementi melodici, la giustapposizione di cellule ritmiche ben definite e la suddivisione del pezzo in sezioni chiaramente distinte dalle cadenze armoniche. Tra i molti compositori di questo periodo che diffusero sia in Italia che all’estero il nuovo stile concertante, ricordiamo B. Marini al quale si deve la differenziazione tra la sonata da camera e quella da chiesa. Egli nel comporre la sonata a quattro op. 22 (1655) la impostava con i criteri di un quartetto polifonico, con la distribuzione dei tempi in presto, adagio, presto, derivandola dalla sinfonia d’opera veneziana e anticipando così la struttura del futuro concerto.

La scuola di S. Petronio e il Torelli

 

 Lontana dallo splendore tipicamente veneziano di quella di S. Marco e della vistosa opulenza di quella romana, la cappella di S. Petronio di Bologna divenne il centro principale in cui si sviluppò il concerto. E’ infatti opinione accolta dai maggiori studiosi che il seme del concerto grosso si trovi in alcune composizioni bolognesi. Il fatto che soltanto nella chiesa vi fosse l’uso di raddoppiare le singole parti della sonata a tre fino a stabilire un’esecuzione affidata ad un doppio organico di strumentisti, spiega coma proprio la chiesa fosse il luogo destinato alle esperienze orchestrali che condussero all’architettura del concerto.

Ma in un periodo stilisticamente così complesso non è pensabile che le attività musicali procedessero nel teatro, nella chiesa e nella camera separatamente. Infatti dall’analisi delle composizioni rileviamo come l’interferenza della pratica del teatro fosse costante nelle esperienze orchestrali che avvenivano in chiesa e viceversa.

Il concerto grosso, il cui periodo di fioritura si estende dal 1680 ca fino al 1740 ca, è caratterizzato dalla presenza, in seno all’intero gruppo strumentale (concertino) di esecutori scelti, in generale un trio formato da due violini e un basso, raggruppamento questo, che si stabilizzò, forse, sotto la determinante influenza dell’opera.

Si può considerare il concerto grosso come creato interamente da A. Stradella (Roma 1644-Genova1682). In una sua composizione, intitolata “Sonata di viole, cioè concerto grosso di viole e concertino di due viole e leuto” è chiara l’opposizione, e in certi passaggi la fusione, fra il duo privilegiato di due viole col basso (concertino) e l’insieme del ripieno (concerto grosso) e ciò offre all’ascoltatore l’interesse di un doppio conflitto fra i solisti del concertino e fra questi solisti e la massa orchestrale. Stradella intuì che il semplice raddoppio delle parti della sonata a tre o a quattro, non sarebbe potuto sfociare in una nuova visione orchestrale; infatti egli mirò alla stesura delle parti intermedie sottraendole alla generica e schematica formula degli strumenti realizzatori, introducendo così una nuova vitalità nel dialogo delle voci. Il piccolo gruppo del “concertino” come il “grosso” di ripieno, non agiscono in Stradella soltanto come antitesi di peso sonoro, ma acquistano un’individualità ben meditata attraverso l’invenzione melodica, la dinamica dell’eco delle progressioni e dei ritornelli.

E’ proprio grazie a questi precedenti che Torelli (1658-1709) potè porre in evidenza la sua forte personalità. Nei suoi “concerti musicali” del 1698 op. 6 pubblicati in Germania, egli diede una netta prevalenza ai violini del concertino sugli altri strumenti, lasciando le voci degli strumenti a fiato in secondo piano. Il concerto solista è realizzato nei sei ultimi concerti dell’ottava opera postuma ove viene anche fissato lo schema tripartito Allegro, Adagio, Allegro.

 

Arcangelo Corelli (1653-1713)

 

 Allo spegnersi del secolo il concerto grosso ha dunque acquistato la sua qualifica e la sua piena fisionomia stilistica. Venendo a mancare la base di un testo letterario da intonare e spentosi l’assoluto predominio contrappuntistico dell’imitazione, occorreva trovare altri espedienti che consentissero di far progredire il discorso musicale. Tali risorse tipiche dell’età barocca si possono così elencare:

  1. Lo stile concertato, derivato dalla tecnica dei cori battenti e consistente nel giustapporre gli stessi elementi ritmico-melodici in blocchi fonici differenti;
  2. La progressione che, consentendo lo sviluppo di un’idea base attraverso il ripetersi dello stesso disegno in diversa altezza, permetteva l’ampliarsi del discorso musicale;
  3. La ripetizione in eco, che il concerto eredita dalla pratica madrigalesca, teatrale e strumentale e che applica largamente al fine di potenziare una determinata idea attraverso il suo rispecchiarsi nel forte e nel piano;
  4. Il ritornello, e cioè il periodico riapparire del “tutto” in contrapposizione agli episodi solistici dopo la sua rappresentazione iniziale. Anche questa caratteristica che stava alla base dell’architettura del concerto grosso, fu ereditata dal teatro.

Gli apporti stilistici sopraelencati trovano il loro perfetto equilibrio e il loro modello nei concerti grossi dell’op. 6 di A. Corelli. Anche i concerti di Corelli, come quelli di Torelli, apparvero postumi nel 1714. I primi otto conservano l’indicazione dei tempi e il carattere della sonata da chiesa; gli altri quattro sono “da camera” e troviamo che essi iniziano con dei preludi in stile polifonico e degli adagi lievi ed espressivi che hanno il compito di collegare i movimenti a ritmo di danza. Il conservatorismo di Corelli si manifesta nel mantenere, anche per i concerti grossi, la tradizionale successione dei 4-6 movimenti ereditata dalla sonata seicentesca; La struttura tripartita (Allegro – Adagio – Allegro) che i bolognesi avevano derivata dalla sinfonia d’opera e che diverrà stabile nel futuro classico e romantico, gli restò ignota. La varietà strutturale del concerto è raggiunta da Corelli non soltanto mediante il differente avvicendarsi dei tempi lenti e di quelli vivaci, ma con l’introdurre all’interno di un dato movimento di brevi episodi contrastanti. L’invenzione tematica di Corelli raramente punta su un motivo iniziale ben marcato, scattante e facile da ricordare, per poi sorprendere e sfruttare estrosamente le risorse nello sviluppo del pezzo; procedimento creativo questo, che fu proprio di Torelli e che sarà di Vivaldi, egli parte da un più sommesso interesse del motto d’inizio, studiando invece di mantenerne vivi, nel fluire dello sviluppo e nella plastica compositiva, la tensione espressiva o lo spicco brillante d’avvio.

Nelle parti solistiche dei violini di concertino egli si propose di mettere in rilievo la virtualità espressiva e la recondita anima dello strumento, approfondendo l’ascolto del lirismo interiore e rifuggendo dalle vistose arditezze dei suoi predecessori bolognesi di lui ben più temerari riguardo all’uso di passaggi di difficoltà tecnica.

 

Vivaldi e i Veneziani

 

Il centro della vita strumentale si sposta da Bologna a Venezia, dove nel 1700 T. Albinoni (1671 – 1750) dà alle stampe le Sinfonie e i Concerti a 5 dell’op. 2. Le sinfonie seguono la struttura in quattro tempi della sonata, mentre i sei concerti sono costruiti secondo la forma tripartita. In questi sei concerti la funzione del concertino è assolta dal violino solista; nel ripieno è originale il rafforzamento della zona sonora centrale mediante la presenza di due distinte parti di viole, singolarità che sarà ripresa da Vivaldi e Bach. Ed è proprio in questo periodo che appaiono i primi concerti per strumento solista e orchestra anche se già in numerosi concerti di Torelli e Corelli si era profilata la tendenza a dare al primo violino del concertino una prevalenza sugli altri strumenti. Figura dominante del concerto nella prima metà del XVIII sec. è il veneziano A. Vivaldi (Venezia 1678 – Vienna 1742). La sinfonia e l’aria d’opera veneziana si innestano con la chiarezza della scrittura e l’asciutto taglio delle strutture. Nei concerti di Vivaldi il rapporto dinamico del “piano” e del “forte” è usato solo negli effetti di eco, le gradazioni di intensità sonora sono legate al costante dialogo tra protagonista e coralità strumentale. Nei primi 12 concerti op. 3 da “l’estro armonico” (Amsterdam 1712) il concertino risultò così formato: in quattro (nn 3-6-9-12) dal violino solista; in due (nn 5 e da due violini; in due (nn 1 e 4) da quattro violini; in due (nn 2 e 11) da due violini ed in altri due (nn 7 e 10) da quattro violini e violoncello, ed in tutti e dodici i tutti sono in stile fugato, mentre quello del solo in stile melodico. Nelle opere seguenti “la stravaganza” op. 4 e “il cimento dell’armonia e dell’invenzione” op. 8, il rapporto fra “solo” e “tutti” va sempre più conquistando una posizione di tensione e di antitesi, specialmente nei due allegri estremi.

Vivaldi immise nel concerto un lirismo, derivante in linea diretta dal teatro, dai suggestivi contrasti, soprattutto tra il piglio decisivo degli allegri e il sentimento raccolto dei movimenti lenti, intesi come arie d’opera o strumentati come effetti di carattere tipicamente operistico; unisoni, uso della sordina, accompagnamento alleggerito dei bassi e così via.  La personale esperienza strumentistica di Vivaldi esecutore, lo portò ad affermare un violinismo agguerrito tecnicamente fino alla nona posizione; a trattare come solisti tutti gli strumenti a corde colorendone il suono con varietà di colpi d’arco; a far emergere come solisti anche alcuni strumenti a fiato, come il flauto, l’ottavino, l’oboe e il fagotto e ad adottare, forse per primo, il clarinetto come timbro orchestrale.

Il virtuosismo del proprio strumento lo portò a maturare nel concerto l’applicazione della “cadenza” solistica. In origine essa era improvvisata, mentre più tardi scriverla venne ad uso proprio del compositore o di qualche revisore.

Ulteriori sviluppi del concerto italiano

 Il concerto mantiene i caratteri stilistici fino ad ora analizzati fin verso la metà del ‘700 cioè fino alla scomparsa della pratica del basso continuo. In Italia il complesso del concertino restò preferibilmente affidato agli archi e il violino rimase pressoché incontrastato protagonista. Nella schiera degli autori di concerti che agirono nella scia di Corelli e di Vivaldi, ci si limita a menzionare quelli che maggiore influsso esercitarono in campo europeo. Premesso che in questo campo produssero con maggiore o minore fortuna anche famosi operisti, quali A. Scarlatti e G.B. Pergolesi, fra i nomi degli eminenti violinisti-compositori spiccano quelli di G.Tartini e P.Locatelli, F. Geminiani, F. Maria Veracini e altri. Molti di essi furono tipici artisti-viaggiatori del ‘700 che improntarono di sé un’epoca eroica per la nostra musica, spargendo attraverso i grandi centri europei la civiltà strumentale occidentale godendo di molta fama nel nord Europa, soprattutto in Germania. Fra i sopraccitati spiccano le personalità di Locatelli e di Tartini.

Partito da una stretta osservanza delle strutture corelliane con notevole accentuazione dello stile contrappuntistico imitativo, Locatelli (Bergamo 1695 – Amsterdam 1764) assurse con i concerti a quattro op. 7 (1741) a nuovi orientamenti stilistici, guidati anche dall’eccezionale sviluppo che egli seppe dare al violino. Tartini (1692 – Padova 1770) nella sua vasta produzione si mantenne nella scia veneziana e particolarmente vivaldiana. Scrisse complessivamente 131 concerti tutti per violino, ad eccezione di due per violoncello e due per flauto. In questo campo Tartini parte dalle esperienze di Vivaldi e Corelli e se nei primi anni ha come modello formale il concerto barocco (con la marcata distinzione fra “solo” e “tutti”), verso il 1730 elabora un tipo di concerto che concede maggior spazio al solista, dilatandone le possibilità virtuosistiche.

Ascolto

 Il concerto per violino di Andrea Zani vuol essere un esempio del gran proliferare dell’ estro musicale nel nostro paese anche nei nomi meno famosi e noti; si inserisce in questa ottica l’ascolto proposto in questa sede non solo per la qualità musicale intrinseca, ma anche per le scarse possibilità di incontro con questa opera non ancora pubblicata e frutto di ricerche musicali personali su manoscritti originali. Per approfondire la conoscenza del semisconosciuto musicista:

Andrea Teodoro Zani nacque l'11 novembre 1696 da Francesco e Lucia Ferrari a Casalmaggiore, fiorente cittadina sul fiume Po, in provincia di Cremona. Situata tra Cremona e Parma, a breve distanza dai grossi centri culturali del tardo rinascimento quali Mantova, Sabbioneta e Viadana, la piccola Casalmaggiore, fu in quegli anni una fucina di talenti musicali. La "piccola Venezia sul Po", così venne chiamata per la sua stimolante vita musicale, oltre ad Andrea Zani e ai suoi allievi, diede i natali al violinista-compositore Carlo Zuccari detto "Zuccherino" (1704-1792).
Cresciuto in una famiglia dove la musica era di casa, il padre era un violinista dilettante, il giovane Andrea fu indirizzato agli studi musicali da un certo Giacomo Civeri, musicista locale che lo istruì nel contrappunto e nel "maneggio" del violino. Successivamente andò a Guastalla per perfezionarsi con il violinista di corte Carlo Ricci, allora famoso virtuoso. Lo Zani compare nei registri dei pagamenti effettuati dalla Confraternita del S.S. Sacramento di Casalmaggiore nel Dicembre 1715 per l'ultima volta. Il padre Francesco invece continuò a percepire i pagamenti per le sue prestazioni di violinista fino al 1724. Dall'anno 1700 era attivo a Mantova, come maestro di cappella al servizio dell'Arciduca Ferdinando Carlo, il veneziano Antonio Caldara (1670/71-1736). Secondo il Romani, storico locale del XVIII secolo, fu proprio Caldara che, di passaggio a Casalmaggiore, conobbe il giovane promettente Zani e, uditolo suonare, lo invitò a raggiungerlo a Vienna dove era stato a sua volta invitato a corte dall' Imperatore Carlo VI. Non ci è dato di sapere se il giovane Zani raggiunse Vienna insieme a Caldara nel 1716 o in un secondo tempo, certo è che, nel 1727 e nel 1729 furono date alle stampe, proprio in Casalmaggiore, le sue Sonate da camera, op. 1 e le Sei Sinfonie da Camera ed altrettanti Concerti da Chiesa a Quattro Strumenti, op. 2. Non sappiamo quindi se Zani tornò in patria da oltralpe per curare la stampa delle sue prime raccolte o se attese la loro pubblicazione per poi raggiungere Caldara, che nel frattempo assunse il ruolo di vice-Kappellmeister. Kappellmeister invece rimase il celebre Johann Joseph Fux, l'autore del Gradus ad Parnassum. Tutto da approfondire e studiare rimane questo periodo viennese di Zani, della sua attività musicale e dei suoi eventuali spostamenti professionali; sicuramente nella capitale austriaca, si distinse come virtuoso e come insegnante privato, senza però riuscire a trovare incarichi ufficiali importanti. Vienna era un importantissimo centro musicale; sappiamo che a palazzo reale l'imperatore Carlo VI si dilettava a comporre brani musicali anche di ottimo livello ed era fautore di concerti e di rappresentazioni teatrali. A corte era attivo nientemeno che Pietro Trapassi, il celebre Metastasio, grande protagonista della cultura del tempo e del melodramma. La fama di Zani violinista e compositore in terra austriaca dovette essere notevole; ciò giustificherebbe la stampa proprio in Vienna nel 1735 dei suoi Concerti a quattro con i suoi ripieni op. 4 e delle Sonate 12 per Violino e Basso intitolate "Pensieri armonici", op. 5.  Probabilmente attorno al 1736, quando il suo musicista-protettore Caldara morì, lo Zani lasciò definitivamente Vienna e rimpatriò in Casalmaggiore dove pare risiedette stabilmente, salvo brevi spostamenti di volta in volta dove era richiesto il suo talento di violinista e concertatore. Non è da escludere che lo Zani abbia raggiunto di persona, in questi anni, il grande ed importante centro culturale di Parigi: la pubblicazione di alcuni suoi lavori e la presenza di molta sua musica manoscritta nelle biblioteche della capitale, sono indizi forse di una sua permanenza in terra francese. Abbiamo notizia di sue presenze a Guastalla nel 1738, a Ferrara, Bologna, Parma, Mantova e Cremona tra il 1740 e il 1757. A Casalmaggiore, dal 12 al 14 aprile del 1739, ebbe il ruolo attivo di organizzatore dell'allestimento di sontuosi festeggiamenti musicali nella chiesa Arcipretale di S. Stefano su richiesta dei Padri Serviti della Fontana, in occasione dell'anniversario di alcuni loro Beati. In quegli anni, si dedicò anche all'insegnamento ed ebbe fra i suoi allievi Valentino Mejer di Mantova e Domenico Ferrari di Piacenza che divennero famosi e applauditi violinisti nonché i suoi concittadini, Don Giovanni Amadini e Don Alessandro Bosio che operarono come maestri di cappella nella locale chiesa Arcipretale di S. Stefano.
Successivamente si unì in matrimonio con Maria Costanza Margherita Porcelli, di ben ventisette anni più giovane di lui, dalla quale ebbe non meno di sette figli, tra i quali vale la pena di ricordare Angelo Maria, nato nel 1752, che diventò abile suonatore di corno da caccia.
Grande era la stima verso il nostro Zani e la sua fama fece sì che in quegli anni fu invitato a Cremona come membro della commissione che scelse Don G.A. Arrighi (1704-1780) di Viadana come nuovo Maestro di Cappella del Duomo. Morì a Casalmaggiore, il 28 settembre 1757, come afferma il Romani, in seguito al rovesciamento della carrozza sulla quale viaggiava sulla strada per Mantova dove era diretto per "affari di famiglia".

Notevole è la quantità dei suoi lavori giunti fino a noi, sia pubblicati che manoscritti: Sonate da camera, op. 1 (prob. Casalmaggiore, 1727), ristampate successivamente a Parigi come Sonates a Violino solo e Basso da camera, op. 3, Sei Sinfonie da Camera ed altrettanti Concerti da Chiesa, op. 2 (Casalmaggiore 1729), Concerti Dodici a quattro con i suoi ripieni op. 4 (Vienna 1735), Sonate 12 a Violino e Basso intitolate "Pensieri armonici", op. 5 (Vienna 1735) e Sonate a Violino e Basso op. 6 (Parigi 1740 ca.). Risultano manoscritti diversi lavori, sparsi un po' in tutta Europa, tra cui: tre Concerti e una Sonata per flauto, alcuni Concerti per violino, sei trii per due Violini e Basso e alcune Sinfonie. Concerti e Sinfonie di Zani manoscritti si trovano celati in varie biblioteche europee, facenti parte di raccolte di altri autori più celebri come Alberi, Sammartini, Stamitz, a riprova dell'altissima qualità compositiva e della stima goduta all’epoca dal nostro Andrea Zani.

 

 

Il concerto barocco fuori dell’Italia

 La nazione nella quale fra ‘600 e ‘700 questa nuova forma si diffuse maggiormente fu la Germania. Rapidamente la nuova forma si diffuse in molti centri, senza restare però legata alla chiesa o alle sole sedi principesche, ma interessando anche la fiorente borghesia tedesca col dar vita ai “collegia musica” e col favorire largamente la partecipazione dei dilettanti alla nuova pratica strumentale: il che non mancò di chiedere quei necessari adattamenti che la struttura originaria del concerto fu costretta a subire; e non fu soltanto la sostituzione del concertino, degli strumenti ad arco con quelli a fiato, tanto prediletti dal gusto tedesco dell’epoca. Difatti la mancanza di sufficienti strumentisti virtuosi e il fatto di rivolgersi a larghi uditori poco specializzati ma avidi di divertirsi, furono circostanze pratiche che favorirono su larga scala strutture di scarso ordinamento tecnico e impostazioni tematiche di carattere popolaresco. Attraverso la presenza di gruppi dialoganti di archi e fiati e data la convenienza di basare il linguaggio particolarmente su procedimenti contrappuntistici, il concerto venne a poco a poco spontaneamente orientandosi verso un più compatto gusto sinfonico.

Il concerto strumentale tedesco di questo periodo s’impernia sulla figura di J. S. Bach (1685-1750). Nella formazione bachiana la lunga meditazione condotta sul concerto italiano ebbe un peso decisivo: attraverso le trascrizioni dei concerti di Vivaldi portati sul cembalo o sull’organo, e attraverso lo studio di altri nostri autori, Bach assorbì non solo una grande chiarezza espositiva, ma apprese i costruttivi rapporti dei pieni e dei vuoti, la simmetria della frase, la logica e l’ordine del discorso musicale e l’equilibrio dell’insieme. Il suo modo di intendere la musica, che lo portava a pensare polifonicamente, lo spinse ad affermare quale protagonista del concerto non solo il violino (spinto fino al massimo delle proprie possibilità polifoniche proprio da Bach), ma anche il cembalo, strumento polifonico che, come si è visto, era fino ad allora rimasto ignoto, quale strumento solista, agli italiani. Accanto ai concerti per uno, due violini e per violino e oboe, troviamo così i concerti dove solisti sono da uno a quattro cembali. Stilisticamente essi riprendono le strutture dei modelli italiani: ma il culmine dell’arte bachiana in questo campo fu raggiunto con i sei concerti brandeburghesi (1721), così chiamati perché dedicati al margravio del brandeburgo. In questi sei concerti Bach ha riassunto ogni intesa fra le parti concertanti e ogni rapporto fra il materiale solistico e quello del grosso.

Nel primo concerto in fa maggiore, tre gruppi paritetici di strumenti, archi, tre oboi e due corni, partecipano al serrato dialogo, sia fra i contrastanti timbri sia fra le sovrapposte parti di contrappunto, distribuendo la composizione in cinque movimenti (allegro, adagio, allegro minuetto, polacca) secondo la concezione formale corelliana. In questo stadio tra il concerto e la suite, Bach rivolge la propria attenzione ai gruppi fra loro concertanti; il peso del solo accompagnato è, vivaldianamente, espresso nell’adagio, dove la linea del canto è affidata all’oboe e al violino piccolo (cioè accordato una terza sopra), sugli accordi del tutti.

Anche il secondo concerto è in fa maggiore, ma la sua struttura è quella del concerto grosso; sul ripieno degli archi si ha un concertino formato dal quartetto: tromba, flauto, oboe, violino. Esso è distribuito nei tre tempi del concerto veneziano. Il terzo concerto in sol maggiore, costituito da due tempi allegro, sfrutta al massimo le sonorità timbriche degli archi presenti: (tre violini, tre viole, tre violoncelli e basso. Contro Nel quarto concerto grosso, in sol maggiore, il concertino è formato da violini e due flauti diritti. Il quinto concerto in re maggiore, pur contrapponendo al grosso come solisti, un violino e un flauto traverso, può essere considerato quasi un “triplo concerto”. Infatti è dall’allegro iniziale che al posto della cadenza del violino, a poco a poco emerge come protagonista la voce del cembalo. Il secondo tempo è tutto affidato ai tre strumenti del concertino. Il sesto concerto in si bemolle maggiore infine, confida soltanto sul gioco degli archi, come il terzo, ma in maniera più austera, poiché dalla partitura sono eliminati i violini e non vi è l’emergere dei solisti.

I concerti di G. F. Handel (1685-1759) si rifanno ai modelli italiani, soprattutto a Corelli, nell’adozione di nette contrapposizioni dei “soli” e del “tutti”. Scrisse parecchi concerti dedicati all’oboe. Nei sei per clavicembalo ed organo op. 4 (1738) Handel introduce l’organo quale strumento solista, venendo incontro al gusto dell’epoca in Inghilterra.

In Francia, al contrario che in Germania, il concerto non ebbe facile inizio: sia per lo spirito conservatore ancora attaccato alla suite, sia per la mancanza di violinisti virtuosi e anche solo di buoni esecutori. In più giocava anche il narcisismo francese tanto che J. Aubert scriveva nel 1730 che il concerto italiano comprometteva il tipico gusto francese. Il concerto prese piede con il suo primo rappresentante che fu Leclair, il quale nei suoi concerti op. 6 e op. 10, riprese fondamentalmente gli stili bolognese e veneziano, dando però allo strumento solista una preminenza virtuosistica e una eleganza tipicamente francese.

Il concerto nell’epoca galante

 Circostanze di carattere sociale e di costume, oltre che artistico, influirono sul cambiamento di gusto e di stili che si concretò attorno alla metà del '700. La diffusione europea del concerto, aveva provocato diversi nuovi fenomeni. La crescita del potere anche economico della borghesia, lo smantellamento di quel formidabile strumento di egemonia culturale rappresentato dalla corte di Versailles, ed infine l’incremento della vita urbana, determinano un ampliamento del pubblico e un decentramento del consumo musicale in una miriade di corti secondarie, di salotti, di circolo privati, nonché di associazioni concertistiche a carattere pubblico, che costituiscono una delle novità dell’epoca. Mentre in Italia il nuovo impulso che investe la secolare istituzione del teatro pubblico corrisponde piuttosto a quella progressiva perdita di interesse per la musica strumentale che nel giro di pochi decenni relegherà il nostro paese ai margini dello sviluppo musicale europeo, in Francia, Germania, Svizzera e Olanda, l’affermarsi di istituzioni concertistiche stabili sovvenzionate dalle finanze municipali – come il Collegium Musicum di Lipsia o il Concert Spiritual di Parigi – costituisce invece un segno dei nuovi tempi, in cui, col modificarsi della struttura della committenza, anche il gusto si evolve nella direzione appunto dell’arte strumentale.

A tutti questi cambiamenti corrispose storicamente an­che una svolta decisiva nello stile del concerto e nella ci­viltà musicale in genere: si ebbe infatti quel periodo di transizione fra il Barocco e il classicismo, che all'incirca abbraccia il trentennio 1750-80 e che per l’importanza dell'apporto italiano fu detto dello "stile galante"; esso era più incline alla piacevolezza e all'eleganza delicata e piuttosto orientato, almeno tendenzialmente, verso il clavicembalo e le piccole forma­zioni. In questo periodo si abbandona la chiesa come centro di attività e la cultura musicale si sposta nella sala da concerto, la concezione barocca del concerto grosso è abbandonata, nella tradizionale struttura del dialogo fra i due nuclei sonori del con­certino e del ripieno, la distinzione fra i Soli e il Tutti si va sempre più affievolendo. Il concerto grosso quindi perde la sua importanza lasciando posto al sentimento individualistico favorendo il col­loquio tra il protagonista e l'orchestra. Questo dialo­go assumerà l'accento di antitesi drammatica, quando il concerto avrà fatta propria la struttura della sonata moder­na, con la presenza del bitematismo e della classica divisione tripartita. I peculiari atteggiamenti stilistici di questo periodo "galante" si possono così schematizzare:

a) crescente antipatia per la decadente scrittura po­lifonica e una sempre maggior attenzione per la bel­lezza della melodia accompagnata;

b) la parte del basso abbandona la pigra funzione tonale per erigersi a voce concertante;

c) il periodare melodico si fa più cantabile e fiorito, spesso popolaresco, più vivace ed elegante;

d) gli strumenti a fiato (oboe e corni) vengono sem­pre più trattati con inflessioni personali e non più come puri ripieni.

Formalmente si abbandonano le architetture solenni e pomposamente cadenzate dell'ultimo barocco. La passionalità si affaccia all'orizzonte e attraverso la forma del concerto ancor più attraverso quella della sonata, apre la strada alle future esperienze artistiche della musica. Come il concerto barocco aveva segnato la grande affermazione del violino quale protagonista principale, il concerto del nuovo periodo trova negli stru­menti a tastiera la sua fondamentale voce: dal clavi­cembalo e clavicordo al pianoforte. Facendo il nome del pianoforte come nuovo protagonista del concerto, ancora una volta si affaccia il problema di quanto decisamente gli strumenti abbiano influito sulla storia delle forme musicali; nel momento in cui dominatori furono Torelli, Corelli e Vivaldi, i liutai cremonesi offrivano gli strumenti più perfetti e insu­perabili.

Nel maturarsi del nuovo stile la scoperta del "tocco" pianistico apriva nuove ragioni espressive, consentendo:

a) il fraseggio legato e personalmente colorito;

b) la possibilità di dare ai diversi temi del concerto una contrastante individualità;

c) di poter accentuare le intenzioni drammatiche dei motivi col netto stacco del "forte" e del "piano";

d) intensificare le gradazioni del sentimento con la dinamica del "crescendo" e "diminuendo".

 L'importanza delle regioni austro-germaniche divenne preponderante. Mentre una scuola della Germania del Nord al seguito di C. Ph. E. Bach conservò la sua prefe­renza al clavicembalo e mantenne un equilibrio assai stretto fra “tutti” e “solo”, nella Germania del Sud e in Austria (Vienna), dove G. C. Wagenseil figura come ca­poscuola, il pianoforte soppiantava ben presto il cla­vicembalo. Interprete fecondo di una moda che amava la musica come divertimento e di una società che voleva partecipare alla gioia di far musica con l'entusiasmo e i limiti del dilettante, il nuovo tipo di concerto trovò la sua piena maturazione in J. Chr. Bach. Dal contatto con i sonatisti italiani egli assorbì la flessuosità melodica, resa più libera e ariosa dall’a­dozione del "basso albertino"; dalla pratica dei concerti violinistici trasferì sulla tastiera l'uso del canto in "doppie terze". La produzione di J. Chr. Bach nel campo del concerto si svolse soprattutto in Inghilterra, do­ve il concerto per pianoforte era largamente richiesto, tan­to da dar vita ad una scuola locale. All’interno di questi concerti il ruolo principale del solista è incontestabile, quasi quanto quello di un sovrano di fronte ai cortigiani. In questo periodo sti­listicamente si presero a modello gli esempi dominanti degli italiani, ma il timbro nuovo fu dato dagli inne­sti popolareschi che, sia nel ritmo che nella melodia, danno al concerto un particolare significato e in più, dal punto di vista formale, il primo tempo si articola di soli­to in 3 parti del “tutti” che racchiudono due sviluppati e­pisodi del “solo”. Accanto al concerto per pianoforte e orchestra, il violino conservava validamente le antiche posizioni. In Italia una forte schiera di maestri famosi sottoli­nea ancora la tradizionale preferenza per la cantabi­lità solistica degli archi: quella del violino e del violoncello. Il violoncello otterrà il suo primo gran­de riconoscimento con il celebre virtuoso-compositore Luigi Boccherini, mentre il violino resterà legato alle scuole del settentrione; in particolare a Pietro Nardini, allievo di Tartini, i cui concerti op. 1 apparvero ad Amsterdam circa nel 1765 e al berga­masco Lolli che con l'allievo palermitano Giornovichi diffuse il gusto del concerto fino in Russia. A queste scuole va aggiunta quella lombarda, e particolar­mente quella milanese, cui fa capo il ceppo violinistico del Lonati e dello Zuccari e che si compendia nel nome di Sammartini. A Milano il Sammartini (Milano 1700 - 1775) aggiungeva alla incredibile attività di sinfonista, quella del comporre e diffondere in Europa i suoi concerti per violino, flauto o altri strumenti solisti. Fra i non pochi ricordiamo quello per violino in la maggiore il cui primo tempo è strutturato secondo un tripartitismo che sfrutta la presenza di temi differen­ti sia per l'orchestra che per il solista. Ciascuno dei 3 movimenti è costruito su 4 sviluppati episodi dei tutti che racchiudono i 3 ampi movimenti del Solo in ognuno dei quali agisce sempre il contrasto fra due temi. Da quanto esposto, il concerto del periodo galante risentì del gusto gaio e pa­tetico del pieno '700, influenzato anche dall'opera buffa napoletana.

Il bitematismo è presente come desiderio di varietà e non solo di drammaticità; e il reciproco incontrarsi e lasciarsi nella conversazione del solista con i gruppi di accompagnamento conferisce al concerto il delicato fonder­si dei vari strumenti.

 

Mozart e il concerto classico

 Il periodo denominato "classico", che abbraccia gli ultimi anni del '700 e i primi anni del nuovo secolo, non significò per il concerto soltanto la piena adozione della forma sonata, ma soprattutto - come fu anche per la so­nata, la sinfonia e le altre forme cameristiche – la lenta conquista di una concezione drammatica. Lo stile di conversazione cede il posto ai conflitti di principi opposti che non solo si concretizzano nel con­trasto di forte e piano dei vari temi musicali, ma an­che si incarnano nella duplice presenza del solista, eroico simbolo di un'ardita fierezza individualistica, e della massa orchestrale, sinfonicamente compatta ora in lotta ora in accordo col protagonista. Tale cammino fu segnato da W. A. Mozart. Lo stesso Haydn grande della sinfonia e del quartetto, fu lontano dal raggiungere gli stessi vertici nel concerto che pure trattò largamente: ne compose alcune decine, per pianoforte, per archi e per fiati solisti. I più importanti sono quelli in Re per violoncello e 2 per pianoforte. Le strutture dei suoi lavori si basano preminentemente sul contrasto dei timbri e dei volumi. Della schiera dei maestri che, in questo periodo, col­tivarono il concerto con criteri di fedeltà formalistica mi limito a ricordare in blocco i nomi della celebrata scuola di Mannheim, con a capo Karl Stamitz, Dussek e Cambini, il quale ci ha lasciato esempi di concerti per pia­noforte limitati, secondo la moda dell'epoca, a 2 soli tempi: un allegro seguito da un rondò.
Prodigioso per facoltà creatrice, Mozart (Salisburgo1756- Vienna 1791) scrisse concerti per tutti gli strumenti allora in uso, eccetto il violoncello e il trombone. Mozart chiarificò l'ibrida espressione della sinfonia concertante separandone i fattori costitutivi: da un lato potenziò gli elementi sinfonici articolandoli nella nuova concezione della sinfonia orchestrale, dall’ altro individuò le componenti concertanti e le sviluppò nelle strutture del concerto per solista e orchestra, dove la partecipazione orchestrale fu sempre intesa come intima collaborazione sinfonica. Nei concerti per violino pre­vale in Mozart uno spirito di fedeltà all'esperienza europea degli italiani; nei famosi tre concerti del 1775 non sono assenti le ombre di Tartini, Geminiani e Locatel­li. Nei concerti per pianoforte egli fu il primo virtuoso moderno della tastiera in grado di innalzare ad altez­ze insuperabili le prodezze dei violinisti compositori italiani. Ed è proprio al pianoforte che egli affidò la sua costante creatività volgendo sempre più le spal­le al gusto corrente di un pubblico intento soltanto a divertirsi e non a commuoversi. Stilisticamente prese le mosse dalle esperienze dei fi­gli di Bach, di Wagenseil, di Schubert e altri. L'istintiva tendenza a dare alla musica strumentale la concretezza di una vitalità "concertante" fra due oppo­ste entità foniche, si affermò nel primo vero concerto mozartiano, in Re maggiore  K 175, che aprì la serie dei 23 Concerti per pianoforte e orchestra, 6 del periodo sa­lisburghese (1773-79), gli altri del periodo viennese (1782-91), che segnò la prima conquista della nuova concezione drammatica del concerto. In queste opere l'ampiezza della composizione con le 22 battute dello sviluppo del primo tempo, ci avverte co­me il giovanissimo compositore avesse subito superato i traguardi puramente decorativi e sociali della galan­teria, liberandosi dal ricordo dei Bach, come anche della vicinanza di Haydn. Una pietra miliare verso la sinfonica emancipazione dell'orchestra nei confronti della figura, ora contra­stante ora assecondante, del solista, si ha nel concerto in si bemolle maggiore K 271 (1777). Il biennio 1784-86 costituisce un momento eccelso non solo per la storia del concerto mozartiano, ma anche per quella del concerto pianistico di ogni tempo. Nei 12 concerti apparsi in quel periodo si contano infatti i maggiori capolavo­ri. In pieno conflitto col dominante costume viennese, Mozart dà ora vita alle maggiori opere della maturità. Nel concerto in re minore K 466, il dualismo del "solo" e del "tutti" è accentuato e inasprito nel tempo iniziale, da una duplicità tematica su cui parallelamente agisco­no sia il solista che l'orchestra. In quello in do minore K 491 il divenire delle modulazio­ni e la ricchezza dell'insolita partecipazione timbri­ca dell'orchestra, conferiscono un qualcosa di trascen­dente al blocco del primo tempo, alla purezza del lar­ghetto e alle variazioni del finale. Il ciclo si conclude col concerto in do maggiore K 503, dove il drammatico e disperato dialogare del solista e della orchestra si stende in una visione sinfonica dove, at­traverso la luminosità dei temi con il loro ampliarsi negli episodi solistici e corali così come con la fantasia delle mo­dulazioni, il compositore afferma la conquista di una perfezione classica, assoluta, insuperabile.

-         Ascolto  -

 La composizione del concerto per violino e orchestra n. 4 in Re maggiore K 218 fu terminata da Mozart nell'ottobre 1775. Costituisce il quarto di cinque concerti per lo stesso strumento (K 207, K 211, K 216, K 219), attribuibili quasi tutti con certezza al compositore e scritti nel breve volgere di pochi mesi (da aprile a dicembre) dello stesso anno. Il concerto si rifà alla scuola italiana (Boccherini, Vivaldi, Tartini) a cui il compositore aggiunge il suo inconfondibile estro melodico. I tratti più personali di questa sua capacità melodica sono presenti nell'andante cantabile. Il rondò conclusivo, ricco di cambiamenti di ritmo e tempo, è un movimento dagli interessanti effetti umoristici.

 

Viotti (1755 - Londra 1824)

 

 

Apprese e sviluppò la forma del concerto sul modello tarti­niano, condizionato, come gusto, all'ambiente parigi­no col quale ben presto ebbe contatti. Nel biennio 1782 - 83 scrisse i primi 10 dei 20 Concerti "parigini", nei quali è facile scorgere il passaggio dalla tradizione italiana settecentesca ad un'espres­sione più aperta e libera, pervasa dei nuovi elementi romantici che erano frutto dei tempi moderni. In questo gruppo dei 20 concerti la tecnica del violino si sviluppa unilateralmente in senso virtuosistico, e la aggressività richiesta anche dal carattere dei tempi, prelude alla conquiste paganiniane. Il II° gruppo (dall’undicesimo al ventesimo) risentono dell'ambiente inglese: il conser­vatorismo del pubblico di Londra, musicalmente ancorato all'ombra di Handel, condusse Viotti a mitigare i prece­denti virtuosismi solistici e a saldare gli episodi solistici e quelli orchestrali in una unità sinfonica.
La scuola di Viotti influì sui maggiori violinisti euro­peii dell'800: fra i suoi diretti allievi emerge J. P. Rode; (1774-1830) ma nella scia viottiana si muovono anche R.  Kreutzer (1766-1831)  e P. F. Baillot (1771-1842).
All'inizio del XIX° secolo il Concerto acquistò con Beethoven (Bonn 1770- Vienna 1827) ampiezza e carattere sinfonico nuovi. Contro la mole dei 40 e più concerti di Mozart abbiamo lo scarno elenco dei 7 di Beethoven: 5 per pianoforte, l per violino, uno per trio e orchestra. E' questo un sintomo della mutata visione della vita e dell'arte. Nel secolo precedente il concerto aveva avuto un significato prevalentemente di gioia sonora, delizia sorpresa: di­vertimento insomma. Nei concerti di Beethoven invece l'opposizione tutti - solo riveste un aspetto drammati­co, in cui il solista fa spesso la figura dell'eroe che affronta una folla ostile. L'andante con moto del IV° concerto in sol per pianoforte op.58 (1805) illustra chiaramente questa concezione. In quest’opera il procedere per contrasto di idee temati­che, per chiaroscuri timbrici e per opposizione di timbri sonori è superato da un nuovo atteggiamento spi­rituale che risolve in musica la conflittualità dell’artista in ideale colloquio col mondo esterno. Questo sdegnoso modo di volgere le spalle al concerto consi­derato come musica "di società", e questo potente af­fermarsi della nuova concezione sinfonica, si accentua­no nel concerto in re maggiore per violino e nel V° per pianoforte. In quest’ultimo op. 73 dominano i grandi temi e­roici: sia nell'aggressività del l° tempo, sia nella sostenuta religiosità dell'adagio, sia nella vittorio­sa gioia del finale. Strutturalmente si infrange ogni schema dall'impetuoso iniziale aggredire degli arpeggi del pianoforte, ancora prima che l'orchestra riesca a farci ascoltare i temi fondamentali, fino alla cadenza conclusiva del tempo d'inizio che, per la prima volta nella storia del concerto, entra come parte integrante della composizione.
Nella musica di Beethoven si trova sempre una tensione dialettica fra due principi contrastanti: da una parte, l'adesione di Beethoven al mondo delle simmetrie formali, che egli eredita dalla tradizione classica haydiniana e mozartiana; dall'altra, la tendenza ad inserire, in questa organizzazione razionale della materia sonora, elementi di contrasto, di impeto e di spregiudicatezza che ne spezzano la linearità, ne turbano la limpidezza, ne tormentano il profilo. Individuando e portando alla luce con assoluta coerenza questi elementi di violenza, nei quali si rispecchiano le stesse ribellioni, lo stes­so gusto e rischio della libertà che furono e sono propri del­l'uomo, Beethoven giunse alle soglie e, si può ben affermare, alla scoperta di una vera e propria concezione romantica del­l' espressione musicale. Tuttavia egli non giunse mai, come invece i suoi successori, a concepire la musica come una confessione intima e immediata: nelle sue ope­re il momento della comunicazione è sempre filtrato at­traverso un assiduo controllo razionale e dunque quel tipico atteggiamento romantico che consiste nell'affidare il discorso musicale al filo della libera fantasia e dell'associazione spontanea viene un poco edulcorato.

 L'800 dopo Beethoven

 
Il Romanticismo, per quanto riguarda il Concerto strumentale, aveva avuto in Beethoven il suo profeta: sarebbe stato esigere troppo dalla sorte il pretendere che seguisse subito una degna schiera di apostoli, infatti gli auto­ri che produssero C. nel primo trentennio dell'800, o si riallacciano all'esperienza Mozartiana, o si espan­dono in prestazioni solistiche attratti dai 2 poli del­la brillantezza e del virtuosismo, senza il problema di un significato d'arte, sollecitati quasi sempre dalle crescenti richieste di mercato che si vengono a creare con l’emergere delle nuove figure della società (mercanti, faccendieri, ecc).

 Chopin (1810 - 1849)

 

 Compose i suoi due concerti per pianoforte nel 1829/30, in un periodo in cui la grande lezione del "tutto sinfonico" Beethoveniano stava per essere totalmente dimenticata; la crescente produzione delle variazioni dei pout-pouris rondò brillanti, adieux, etc... sulle melodie favorite delle opere italiane (Bellini, Rossini, Donizetti), contribuiva sempre più a staccare il pianoforte dalla orchestra e isolarlo quale strumento autonomo.
Di tale moda si giovò pertanto la tecnica pianistica; sicché il concerto divenne una specie di vivaio di novità strumentali racchiuse in una forma tradizionale nella quale all'orchestra era ormai riservata una funzione di servile accompagnamento. Ma se nei concerti chopiniani l'orchestra ha un significato dimesso, e quindi ogni vita dialettica della composizione viene meno, la loro vitale forza poetica è espressa nella geniale invenzio­ne dei temi di penetrante incanto quasi vocalistico, nella cantabilità dei "passaggi pianistici" sui quali si basano gli sviluppi della composizione, e nella per­sonale genialità modulante che caratterizza l'opera chopiniana. In campo violinistico il concerto op. 61 di Beethoven aveva segnato un punto d'arrivo insuperabile, nel raggiunto supremo equilibrio del virtuosismo strumentale sempre piegato a ragioni d'arte e "pensato" come partecipe ad un affresco sinfonico. Entro i primi decenni del secolo le due singolari e antitetiche personalità che spiccano nella storia del violino, sono Spohr e N. Pa­ganini. Mentre il primo, pure imbevuto di sentimento romantico e spinto dal desiderio di ricerche tecniche, restava in parte ancorato ai trascorsi ideali del clas­sicismo, il secondo scopriva, asseriva e imponeva un nuo­vo violinismo ed un nuovo dizionario linguistico, le cui impensate ed animose arditezze dettero vita ad un tipico concerto  romantico che non si imperniava soltanto sul­la tirannia del solista, ma si illuminava di ardori sperimentali e di nuovi orizzonti aperti su un'espres­sione di geniale rapsodismo. Dei suoi 5 concerti almeno 3 (1-4-5) restano patrimonio attuale di esecutori e di platee, per la piacevole incisività tema­tica e per l'incantevole sfruttamento di sconosciute regioni strumentali che divennero forme di un linguaggio saturo di ottimismo con ampie zone musicali che riprendevano in pieno il classicismo.
All'estro Paganiniano seguì nel corso del secolo, un buon numero di maestri che, con gli stessi criteri di esaltazione virtuosistica, si cimentarono nel concerto per violino, fra loro Henry Vieuxtemps allievo di Bériot, Henry Wieniawski, Edouard Lalo, Max Bruch.
"Il Demoniaco" che brilla nell’opera paganiniana rivive, soprattutto, nella tastiera di F. Liszt: ciò va inteso soltanto nei riguardi della prestazione "trascendentale" del solista, perché riguardo alla concezione struttura­le, Liszt aspirò ad un innesto del concerto nella sinfonia; e quindi ubbidì a criteri architettonici opposti ri­spetto ai moduli Paganiniani. Accolse e accentuò il basilare principio dell'alternata concatenazione tra "tutti" e "solo" e fra i vari episo­di della composizione, realizzandone l’unità attraver­so l'artificio della "variazione" ritmica, che egli rinnovò ed esasperò fino ad attuare una costante ed  originale "Metamorfosi tematica". Tale concezione strutturale consentì a Liszt di ripro­porre il concerto nella nuova veste di affresco sinfonico nel quale il solista e l'orchestra partecipano, legati nel­le idee tematiche, all'espandersi di una nuova carica emotiva che accentua l'eloquente cogitato divenire di  un poema romantico. Il "concerto sinfonico" in un sol tempo in La maggiore (compo­sto nel 1839) e quello in Mi bemolle maggiore (composto nel 1849) testimoniano questa coerenza dell’autore.
Una parallela concezione strutturale del concerto accomuna nel 3° e 4° decennio del secolo, i nomi di F. Mendelss­hon e R. Schumann; e fu loro l'idea di abolire il preambo­lo orchestrale con il relativo preannunciare dei temi, che, se nei grandi maestri classici aveva costruito il segreto di un'attesa drammatica, con Chopin e altri au­tori si era ormai ridotto ad un puro formalismo che di­ fatto, ritardava soltanto l'attacco del solista. Così con i concerti in sol minore (1831) e in re minore (1837) per pianoforte, e con quello per violino in Mi minore (1844) Mendelssohn affida contemporaneamente al soli­sta e all'orchestra il compito di introdursi subito in argomento. E anche Schumann seguì l'esempio di tra­sportare immediatamente l'ascoltatore nell'idea melodica. E' noto come il primo tempo del concerto in La minore op. 54 per pianoforte e orchestra (1841) fosse, in origine, composto per solo pianoforte e come soltanto quattro anni dopo esso apparve quale concerto con l'aggiunta degli altri 2 tempi. Ciò porta a riflettere sui proble­mi che Schumann si poneva di fronte alle forti struttu­re del concerto, problemi che se, per somma virtù  pianistica, furono superati nel celebre ricordato concerto, non liberaro­no l'autore dalle pastoie di procedimenti  accademici in quello per violoncello (1850). Questi problemi mirarono a raggiungere l'unità della composizione, non attraverso il divenire dialettico del bitematismo classico, bensì mediante l'attuarsi di geniali variazioni elaborate su un unico tema fondamen­tale. Così nel concerto op. 54 dal bellissimo tema iniziale nasceranno non soltanto il 2° tema e il motivo conclu­sivo della "coda" nel l° tempo, ma anche il tema dell’intermezzo e quello del finale. Con Schumann si venne dunque affermando il principio "ciclico" di un monotematismo variato: principio rivo­luzionario di cui Liszt fece subito tesoro nel suo concerto in Mi minore.
Nella storia del C. della 2° metà dell'800 spicca la figura e la personalità di J. Brahms, i cui 4 C. – in re minore per pianoforte op. 15, per violino op. 77, in Si bemolle maggiore per pianoforte op. 83, e doppio concerto per violino e violoncello op. 102 – abbracciano l'arco di un trentennio. Nel corso di questo periodo apparvero i concerti  per pianoforte in La minore di Grieg, in Si bemolle minore di Tchaikowsky, in Sol minore di Dvoràk, 8 dei 10 di Saint Saens, lavori che, con mag­giore o minore fortuna restano nel vivo repertorio attuale. Come concezione strutturale dominano in que­ste opere gli atteggiamenti poemizzanti e sinfonici dichiarati da Liszt: l'antagonismo eloquente, spesso eroico, fra il solista campione dello strumento e la smagliante potenza timbrica e armonica dell'orchestra si articola su piani sempre più ricchi di sorprese, mentre la tematica si rinnova attraverso gli apporti melodici dettati da intenti nazionalistici che spesso spingevano gli autori ad attingere ai canti popolari, sorgenti di irresistibili ed espanse cariche emotive.
In piano del tutto opposto gravita invece la pensosa, austera, sognante e poetica concezione tardoromantica che ebbe Brahms della forma in esame. Anche qui come nella sinfo­nia, egli reagì al pieno romanticismo dominante e al suo frequente esagerare in quegli atteggiamenti e cli­mi tutti esteriori che anelavano a mire extra musicali. Con Brahms tale forma cessa di essere dramma: alla tematica ricordevole, concisa e perentoria che nei classici era stata fonte prima dei conflitti di sentimenti, si contrappongono le tipiche frasi complesse il cui respi­ro nasce da una segreta interiorità, capace di far na­scere le ampie frasi che caratterizzano l'ampio svilup­parsi della composizione attraverso un inesauribile ap­porto di moduli contrappuntistici nei quali compare il personale linguaggio armonico Brahmsiano. Concettualmente la composizione non abbandona mai l'as­soluto sinfonico, e formalmente procede attraverso la grande ed irrequieta arte delle variazioni, che supera e dissolve, in costante divenire musicale il tradi­zionale blocco unitario dello sviluppo tematico che fu del concerto classico. Anche nei vasti orizzonti del concerto, Brahms non dimentica il mondo poetico del lied: ne troviamo la prova più chiara nell'andante del secondo concerto per pianoforte; il sinfonista e il lirico, l'artefice teso nell'anelito al grandioso e il cantore delle intime confidenze sono anche qui vicendevolmente associati così come nell’adagio del concerto per violino.

 - ascolto -

 Il concerto in re per violino e orchestra è, al pari della seconda sinfonia, un frutto della maturità di Brahms cioè delle estati 1877/1878 che trascorse al lago di Worthersee. Uno degli aspetti della composizione è la serenità un po’ malinconica che la pervade durante tutto l’arco dell’ascolto; l’altro era che Brahms si cimentava in un concerto per violino (strumento a lui non così noto come il pianoforte) solo sotto le spinte dell’amico violinista Joachim. Egli era talmente tanto preso dalla forma sinfonica che dovette invertire l’ordine dei due tempi centrali (all’inizio era concepito come una sinfonia a quattro movimenti) e alla fine sostituirli con l’attuale adagio. Quando consegnò il manoscritto al grande virtuoso del violino fu riluttante ad accettarne la stragrande maggioranza dei consigli perché non c’era, da parte del compositore, la volontà di far emergere il virtuosismo o il tecnicismo brillante del violino ma l’opera mirava ad involgere il solista nella tessitura sinfonica globale. Per queste ragioni l’opera non fu accettata subito dal pubblico (così come da Joachim stesso che soltanto dopo un grande lavoro di studio e solo dopo una dozzina di esecuzioni si permise di eseguirlo “in completa tranquillità et a memoria”). Si parlò di un concerto “contro il violino” o, forse con un certo diritto, di “sinfonia con violino obbligato” mentre un certo (!) Pablo De Sarasate diceva del secondo movimento: “Non sono così privo di buon gusto da starmene col violino in mano ad ascoltare come l’oboe suona l’unica melodia esistente nel pezzo”.

Brahms nacque in una famiglia modesta, secondo di tre figli. Suo padre era musicista popolare e suonava diversi strumenti: flauto, corno, violino, contrabbasso, e fu lui a dare al giovane Johannes le prime lezioni di musica. La madre era sarta. Profondamente amata da Brahms, il padre se ne separò nel 1865, ma il musicista (che non si sposò mai) rimase profondamente legato alla famiglia, tanto da supportare anche la seconda moglie del padre, in vecchiaia. Famiglia che peraltro, riconoscendone le doti, gli consentì un'educazione di qualità nonostante la propria modestia. Il ragazzo rivelò un talento musicale naturale, precoce e attirato da tutti gli strumenti; cominciò a studiare pianoforte a 7 anni e pareva destinato alla carriera concertistica, ma prendeva anche lezioni di corno e di violoncello. Il suo primo concerto pubblico è attestato nel 1843, a 10 anni, e fin dai 13 anni il futuro compositore contribuiva al bilancio familiare suonando (come suo padre) nei locali di Amburgo e, più avanti, dando lezioni di piano. A vent'anni, nel 1853, Brahms fece alcuni dei grandi incontri della sua vita: prima il grande violinista Joseph Joachim, con il quale iniziò una lunga e proficua collaborazione. E fu Joachim che lo presentò a Franz Liszt (e Brahms si addormentò, durante l'esecuzione del maestro...),ma soprattutto lo introdusse in casa Schumann: il rapporto con i due sarà fondamentale nella vita di Brahms. Schumann lo considerò immediatamente e senza riserve un genio, e lo indicò sulla sua Neue Zeitschrift für Musik come il musicista del futuro; Brahms per parte sua considerò Schumann il suo unico e vero maestro, restandogli vicino con devozione fino alla morte. Il legame con Clara Wieck Schumann durò fino alla di lei morte: Brahms le sopravvisse per meno di un anno. L'attività concertistica di Brahms continuò fino agli anni '70, spesso insieme a Joachim, parallelamente alla composizione e alla direzione. Una recensione descrive così il suo stile pianistico di quegli anni: «Molti artisti possiedono una tecnica più brillante, ma sono pochi quelli che sanno tradurre le intenzioni del compositore in maniera altrettanto convincente, o seguire il volo del genio beethoveniano e rivelarne tutto lo splendore come fa Brahms». Già dal 1853, anno della tournée con Reményi durante la quale aveva incontrato Joachim a Gottinga, Brahms cominciò quella vita un po' raminga cui lo costringeva il suo lavoro e che in fondo, nonostante fosse uomo molto legato alle proprie abitudini e al proprio modo di vivere, non doveva dispiacergli. La sua passione erano, però i soggiorni che gli consentivano lunghe passeggiate in mezzo alla natura, che erano l'occasione per continuare ad elaborare. Fu parlando di una di queste che disse “qui aleggiano tutt’intorno le melodie, cosi che bisogna guardarsi dal calpestarne una”Quando Clara si stabilì a Berlino, nel 1857 Brahms tornò ad Amburgo, dove creò e diresse per tre anni un coro femminile. Questa attività con il coro, che continuò alla corte di Detmold e poi alla Singakademie di Vienna, aveva certamente motivazioni economiche, ma fu anche importante per l'attività di compositore di Brahms, che non scrisse mai musica per opere, ma alla scrittura per voce diede grandissima attenzione. Brahms lasciò una battuta divertente e significativa, che legava la sua storia di scapolo a quella di mancato compositore d'opera: «Scrivere un'opera sarebbe per me altrettanto difficile che sposarmi. Ma, probabilmente, dopo la prima esperienza ne farei una seconda.» Nel 1862 soggiornò a Vienna, che dall'anno successivo divenne il suo luogo di residenza principale. A Vienna fu assai apprezzato, stabilì relazioni e vi si stabilì definitivamente dal 1878. Fu lì che avvenne il suo unico incontro con Wagner e soprattutto, nel 1870, fu lì che trovò Hans von Bülow, il grande direttore che divenne suo amico ed uno dei suoi principali estimatori. Bisognoso di perfezione, Brahms fu assai lento nello scrivere, e soprattutto nel pubblicare ed eseguire le proprie opere, quelle, almeno, che considerava "importanti". La sua Prima sinfonia (quella che Von Bülow definì "la Decima di Beethoven") ebbe la prima esecuzione solo nel 1876, a Bayreuth: il maestro aveva già 43 anni e viveva di musica praticamente da sempre. Negli ultimi 20 anni di vita Brahms poté infine dedicarsi soprattutto alla composizione. Sono gli anni dei principali lavori per orchestra - le altre 3 sinfonie, il Concerto per violino, del Concerto n. 2 per pianoforte, fino ai magistrali capolavori cameristici dell'ultimo periodo. Morì a Vienna di un cancro, come suo padre, pochi mesi dopo la morte della sua amica di una vita, Clara Schumann, il 3 aprile 1897, e fu sepolto nel cimitero di Vienna, nel "quartiere" dei musicisti. L'estetica di Brahms - ciò che fa di lui uno dei grandissimi musicisti dell'800 - si fonda su uno straordinario mix tra forme classiche rigorose, fondate su una grande sapienza contrappuntistica e polifonica, e spirito profondamente romantico, che si manifesta nel magnifico colore musicale, nell'inventiva melodica, nel sovrapporsi sorprendente dei ritmi.

  

Il Concerto nella prima metà del XX secolo

 

Il nostro secolo, nella travagliata crisi di tecniche, di linguaggio, di stili e di forme, non ha volto le spalle al concerto strumentale: anzi ci ha lasciato finora non poche pagine (Ravel, Hindemith, Bartok,  Berg) de­stinate a documentare validamente le inesauribili ri­sorse della dialettica musicale fra il solista e il "grosso", sia essa considerata in senso agonistico e drammatico sia come voce concertante che si immedesima nel tessuto sinfonico della composizione. Ferruccio Busoni (1866-1924) dopo un primo concerto per vio­lino (1897), conduceva a termine in due anni di lavoro (1903-1904) quello per pianoforte op. 39, con un'orche­stra insolitamente folta di fiati e percussioni, e con un coro finale a 6 voci virili: opera imponente, dispersiva e irripetibile in 5 tempi, nella quale il talento creativo del pianista spaziò rapsodicamente.
Nella generazione vissuta a cavallo tra i due secoli i maggiori rappresentanti scrissero concerti per i vari stru­menti. Pur tenendo conto di quanto accadeva in Europa, non rinunciarono a dare rilievo alla cantabilità pre­dominante del solista, né Respighi (concerto gregoriano per violino), né Pizzetti (opere per violino, per violoncello e i "canti della stagione alta" per pianoforte), né Malipiero (alcuni concerti per pianoforte,violino, violon­cello); mentre ad atteggiamenti più scabri e puramen­te architettonici si attenne Casella (Torino 1883 ­Roma 1947)  con i concerti per organo, violino, violoncello e il robusto triplo op.56.
Nel l° trentennio del secolo si venne a formare un va­sto movimento culturale creativo che tendeva a riordi­nare ed a rigenerare la vitalità della forma, proponendo alla fantasia dei compositori la pulizia e la classicità dei modelli barocchi, analizzati, osservati e applica­ti attraverso il rigore di una scrittura contrappunti­stica; in quest’ottica si trovò la voce europea più significativa nel tede­sco P. Hindemith. Questo "bisogno di classicità" come reazione al decaduto romanticismo e all'ancor vivo Im­pressionismo, fu tutt'altro che un polemico risalire la corrente: a parte il bisogno di uscire da un disor­dine morale, spirituale che fu proprio del l° dopoguer­ra tedesco, fu nella riscoperta e nel recupero dei brandeburghesi bachiani che Hindemith trovò il modello e la via per la feconda e inconfondibile "mimesi". Come ognu­no dei 6 concerti bachiani faceva storia a sé, così la Kammer­musiken di Hindemith per pianoforte violoncello, violi­no, viola, viola d'amore e organo (1924-27), variamente riproponevano in chiave attuale i problemi trattati da Bach. Fra la civilissima conclusione bachiana e la ri­proposta di Hindemith c'era stata l'apertura primitiva e selvaggia di Stravinskij: sì che le ricchezze stru­mentali contrappuntistiche hindemithiane, si espanse­ro in ansietà emotive che incrinavano le magistrali simmetrie della struttura. Nello stesso anno, il 1924, (II Kam­mermusik hindemitiana), anche I. Stravinskij iniziava la serie dei suoi importanti "repegiage" con il concerto “pour piano suite d'orchestra d'harmonie” che sperimen­tava il felice connubio tra lo strumento a martelli e le sonorità di un'orchestra di fiati; (opera questa, stili­sticamente vicina a Bach e Vivaldi riprendendo i modu­li dell'antico contrasto Solo - Tutti). Più distesi panorami sinfonici si ebbero, invece, nel concerto in Re per violino (1831) e più particolarmente nelle due arie centrali di questa composizione. Dopo il concerto per due pianoforti del 1935 Stravinskij ha composto solamente concerti intesi esclusivamente a dialettica inter­na delle parti orchestrali, cioè senza antagonismi so­listici: si ricorda il concerto per orchestra del 1938, e il concerto in Re per archi del 1946; in questo modo Stravinskij concluse un riesame stilistico della vasta gamma di a­spetti che la forma strumentale ebbe nel '700. Accanto a queste due spiccate personalità, nessuno dei maestri contemporanei sfuggì alla suggestione di com­porre concerti, rifacendosi a modelli di vario stile. Lirismo e vistosità tecnica si alternarono nei non po­chi concerti di Sergej Prokofiev rispettosi di necessarie e­sigenze formali; particolarmente il 3° per piano­forte del 1917. Fra i maestri sovietici eccelle Dimi­tri Sciostakovic, che, dopo essersi felicemente propo­sto di divertire con lo spregiudicato concerto per pianofor­te, tromba e archi, op. 35 del 1933 si impegnava più a fondo col concerto in 4 tempi (di cui è bene ricordare la Passacaglia) per violino op. 99 (1948), lavoro che è al di sopra del virtuosismo e "obbliga ad esprimere i pensieri, i sentimenti, gli stati d'animo più profon­di" (Oistrak). La letteratura violinistica si era in­tanto arricchita nei primi decenni del secolo del tem­pestoso concerto in Re minore op. 47 di Sibelius (1865-1957), il cui rapsodismo tematico è disciplinato da un'inge­gnosa struttura formale e del non meno arduo e impor­tante concerto datato 1939 di E. Bloch, che trattava lo strumen­to solista e la materia musicale con intenti drammatici ma strutturalmente compatti. La Francia degli anni '30si illumina di due insigne opere: il concerto per la mano si­nistra (1931) e quello in Sol maggiore dell'anno dopo per pianoforte di M. Ravel; in esse si riassumono tutte le composizioni simili dell'importante schiera musicale francese del tempo. Sebbene concepiti e scritti quasi contemporaneamente, i due concerti vivono in climi de­cisamente opposti: il l° quasi a forzare i limiti della possibilità di sole cinque dita si sviluppa in costante tensione virtuosistica, mentre quello in sol maggiore nel suo lirismo intimo, nel suo conversare cameristico, richiama Scarlatti e Mozart. In questi due capolavori il grande artista riesce a ricomporre, con saggia eleganza, le fratture causate dalle epoche, da scuole e stili differenti. In Ungheria, accanto a quelli di Kodàly, i concerti che fan­no storia restano i 5 di Béla Bartok (1881- 1945) : 3 per pianoforte, 1 per violino, 1 per viola: quest'ultimo e il terzo per pianoforte sono postumi. Partito con la "rapsodia" per pianoforte e orchestra (1904) da netti influssi lisztiani, Bartok affermò col l° concerto per pianoforte (1926) le basilari conquiste del suo prodigioso istinto: graduale liberazione dalle tonalità tradizionali e acquisizione di una scrittura modale derivata dalle fonti popolari, di qui anche la novità del materiale tematico e l'impressionante mutevolezza delle cellule ritmiche che, pur ordinate in quadrature studiate, animano di qualità primitiva e "barbarica" la composizione. Dal concerto bachiano e dagli antichi model­li italiani Bartok ha ripreso sia la necessità di una scrittura contrappuntistica sia la posizione "concer­tante" dello strumento solista. Il pianoforte è qui animato come strumento "a percussione" negli allegri, salvo a distendersi in ampie zone di "legato" negli adagio. Entro schemi più formali il II concerto per pia­noforte (1931) (I° tempo in forma-sonata) dove vi  è an­che una maggiore individuazione dello strumento soli­sta, una scrittura più scorrevole e una più decisiva ambientazione tonale. Nel successivo concerto per violino (1938) la piena maturità consente all'artista di ri­solvere in "classica compostezza" la preminenza del solista sulla colorita trasparenza della polifonia orchestrale. Il terzo concerto per pianoforte, e infine, quello per viola che era rimasto allo stato di abbozzi (riuni­ti da T. Serly) alla morte dell'autore, palesano un Bartok sempre più incline a momenti emotivi e commosse confessioni. Nel terzo concerto il pianoforte, perduto ormai il barbarico ufficio di strumento a percussione, ritro­va il suo antico suono, che subito si annuncia sul mor­morio dell'orchestra all'inizio del primo tempo. Poi la melodia solistica si profila sul taglio di un "corale", finché nel rondò finale l'urto ritmico riporta alla prima intenzione facendo prevalere appunto la ritmicità dello strumento sulla cantabilità. Il radicale mutamento del linguaggio musicale che seguì alla crisi dell'atonalismo e s'identificò con l'organiz­zarsi della nuova tecnica della dodecafonia e della nuo­va sintassi sonora essenzialmente polifonica, trova la sua applicazione anche nel concerto a cominciare dal caposcuo­la Schomberg (Vienna 1874 – Los Angeles 1951), che ne compose uno per violino op. 36 e uno per pianoforte op. 42 (1942). Durante il periodo in cui Schomberg scriveva il suo primo (1934-36), A. Berg (Vienna 1885 - 1935 ) pubblicava, nell'anno che coincise con la sua morte, quello per violino che ha segnato un'importante pietra mi­liare della forma. Questo lavoro fu scritto nel periodo in cui morì Manon Gropius, e questa fu una coincidenza che ebbe un influsso decisivo sulla liricità della composi­zione e sulla tensione religiosa presente nelle sue strutture. Ma esso coincise anche, stilisticamente, con l'abbandono di una rigorosa applicazione del "sistema" e con l'apertura verso quei possibili addentellati "tonali" che la tecnica dodecafonica aveva e che Berg riuscì a scoprire. L'equilibrio dei rapporti che sorvegliano il dialogo fra solista e orchestra si attiene agli schemi tradi­zionali, con una particolare tendenza a dare spicco, sul tessuto sinfonico, alla voce del l° violino nei quattro movimenti (andante, allegretto, allegro, adagio) che sono suddivisi in due parti nettamente contrastanti fra loro.

Ascolto

 Nel momento storico precedente all’undici settembre (il quale fa sicuramente da spartiacque fra due momenti storici molto più del passaggio al nuovo secolo) vi sono alcuni validi musicisti che si caratterizzano per la cultura globale e a “tutto tondo”; ecco che allora musicisti, saggisti, scrittori e relatori sono figure che si intersecano anche in una sola persona. Una di queste figure è l’attuale direttore del conservatorio di Parma E.Ghezzi che si è cimentato (fra le altre cose) in un concerto per violino. Vicino alla mia sensibilità, egli ha avvertito la maggiore “difficoltà”, la maggiore problematica timbrica nel secondo tempo scrivendolo sia per violino che per viola. Da ciò parte tutta la ragione degli ascolti dei secondi tempi dei concerti presi in esame. Infatti, mentre il primo tempo di un concerto dagli albori ad oggi bene o male si è evoluto e, se vogliamo, incastrato e incagliato in una forma, e il terzo tempo si è dato come priorità la velocità, spesso il ternario e anche l’uso di temi popolari (da mozart in avanti fino al pieno utilizzo di forme popolari con Kodàly e Bartok), il problema dell’autore e dell’esecutore è sempre stato, a mio avviso, il secondo tempo; il “tempo lento”. E lì che si trova l’evoluzione della forma concerto e la sua stessa stasi al contempo, in quanto il secondo tempo deve essere lirico, dare un po’ di fiato all’esecutore e al pubblico ma non troppo; deve portare tensione non ossessiva fino allo stemperare la stessa nel terzo tempo ma senza cercare aiuti nella velocità e nel contempo dare l’impressione di essere un tempo tranquillo e sereno. Per tutte queste ragioni il secondo tempo di ogni concerto è, a mio avviso, il più “pesante” da rendere e difficile da eseguire e per questo propongo all’ascolto in questa mia carrellata storica, il concerto completo agli albori (A. Zani) e l’evoluzione della forma nei tempi lenti dei concerti in esame (classico, Mozart, romantico, Brahms e moderno Ghezzi) evoluzione che, si noterà, dopo essere stata sviscerata e completamente rivoluzionata, diventa ciclica con il ripescaggio delle forme se non addirittura dei temi portanti dall’antichità (passacaglia di Hindemith ad esempio) adattando tutto alla forma diversa di linguaggio che l’evoluzione dei tempi moderni ha richiesto agli autori ed ai musicisti.

 

Roberto Ilacqua

BIBLIOGRAFIA

 

AA.VV.  Enciclopedia della musica, Garzanti, Milano 1983.

 AA.VV. Enciclopedia della musica, Rizzoli, Ricordi, Milano 1982.

 AA.VV. Enciclopedia storica della musica, UTET, Torino 1984.

 AA.VV. Vikipedia, internet.

 Champigneulle Bernard, Storia della musica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1985.

 Fubini Enrico, L’estetica musicale dal settecento ad oggi, Einaudi, Torino 1968.

 Grove’s Gorge, Dictionary of music and musicians, 1981.

Mila Massimo, Breve storia della musica, Einaudi, Torino, 1965.

 
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